Padre Giuseppe De Cillia nasce nel 1936 a Plasencis, in provincia di Udine. A soli 13 anni entra nell’Istituto Saveriano e, una volta sacerdote, viene subito destinato a varie
missioni nella diocesi di Bururi, in Burundi, dove rimarrà per 20 anni e fonderà la parrocchia di Buyengero. Nel 1984 i suoi superiori dispongono il rientro a Udine nella Scuola apostolica Saveriana, ma il suo cuore è rimasto in Africa e 5 anni dopo torna a Bujumbura con un nuovo incarico all’interno della missione di Kamenge.
Nel 1993 la guerra colpisce il Burundi e Padre Bepi si dedica con coraggio all’aiuto dei rifugiati, ricostruendo case per la povera gente e allestendo un dispensario per prestare soccorso, quasi gratuito, ai più bisognosi. Il suo lavoro si estenderà anche ad altre missioni, grazie alla costruzione di strade, acquedotti, case per i profughi e chiese, facendogli guadagnare la fama di “costruttore” presso le popolazioni locali.
Per questo suo grande impegno, portato avanti con altruismo e incrollabile dedizione, il 1 maggio 2010 riceve il premio dal Presidente della Repubblica del Burundi, Pierre Nkurunziza, e nel giugno 2011 gli viene inoltre conferita la nazionalità burundese.
Omelia per la liturgia funebre per Padre Giuseppe De Cillia
Casa madre di Parma, 7 gennaio 2015
2 Cor 4,16-18; Gv 10, 11-18
Tutti sentiamo quanto sia vera per Padre Giuseppe De Cillia, che oggi accompagniamo alla sepoltura, la parola di Paolo letta questa mattina: “Per questo non ci scoraggiamo, ma, se anche il nostro uomo esteriore si va disfacendo, quello interiore invece si rinnova di giorno in giorno. Infatti, il momentaneo, leggero peso della nostra tribolazione ci procura una quantità smisurata ed eterna di gloria: noi non fissiamo lo sguardo sulle cose visibili, ma su quelle invisibili, perché le cose visibili sono di un momento, quelle invisibili invece sono eterne” (2Co 4,16-18). Questo Fratello ha vissuto questa parola di Paolo in modo personale nel corso di questi ultimi mesi. Dio l’ha preparato all’incontro con sé e ora l’ha ammesso a contemplare le “realtà invisibili”, la gloria cioè e il volto di Dio. Noi rimasti qui, lo crediamo e in questa liturgia di commiato terreno, ringraziamo Dio di avercelo dato, come fratello, amico e compagno di missione. E su di lui fissiamo ancora lo sguardo per confortare la nostra fede e sostenere la speranza nostra e quella dei suoi familiari e degli amici che sono qui con noi a condividere quest’ora di sofferenza.
Parlare di Padre Giuseppe De Cillia, se si guarda lo svolgimento cronologico della sua vita missionaria, potrebbe sembrare una normale vita missionaria, semplice da ripercorrere, perché essa si svolge quasi completamente in quel piccolo paese che è il Burundi. Padre Giuseppe De Cillia nacque a Plasencis – Mereto di Tomba (Udine) il 17 marzo 1936. Entrò all'Istituto Saveriano di Udine nel 1949; emise la Prima Professione il 12 settembre 1955; fu ordinato presbitero a Parma il 13 ottobre 1963.
Dopo l'ordinazione fu subito destinato al Burundi nell’autunno del 1964, uno dei primi Saveriani a raggiungere quella nuova missione. Fu parroco a Rumonge (65-66), a Murago (66-76) e A Rumeza (76-84); Consigliere Regionale (74-77; 79-82) e Vice Regionale (82-84). Dal 1984 al 1989 fu in Italia nel quadro dell’avvicendamento del personale come animatore missionario ed economo a Udine. Nel 1989 ritornò in Burundi. Vi rimase fino al 2013, impegnato a Bujumbura presso la casa regionale e poi presso la parrocchia San Guido M. Conforti di Kamenge dove lavorò nel ministero parrocchiale e soprattutto nelle attività sociali e nelle costruzioni fino al suo rientro per malattia prima nel 2013 e poi nel 2014. Il Signore l’ha chiamato al premio eterno intorno alle 23,30 del 4 gennaio 2015, all’Ospedale di Parma dove era ricoverato da una quindicina di giorni. La morte è sopravvenuta in seguito a un’improvvisa degenerazione leucemica acuta di una pregressa displasia midollare, diagnosticata nel luglio 2013.
Come si vede, la sua vita si è quindi svolta prevalentemente in Burundi e potrebbe sembrare una normale vita missionaria. Ma chi conosce la storia del Burundi sa quanto questa è stata tormentata in questi ultimi cinquant’anni, a causa delle lotte tribali e sociali che hanno insanguinato il Paese dalla sua indipendenza a oggi. E Padre De Cillia si è trovato a viverla in modo diretto e personale, tanto da diventare un testimone, spesso scomodo, per il potere politico di quel Paese che a più riprese ha cercato di espellerlo senza peraltro riuscirci, ma per noi che abbiamo lavorato con lui, egli è stato un punto di riferimento imprescindibile. Non intendo fare di lui un eroe, anche se la tentazione è reale, perché in Bepi (come familiarmente lo si chiamava) i tratti dell’eroe ci sono tutti (Rambo era stato chiamato dai volontari italiani), ma il primo a insorgere sarebbe certamente lui, che si alzerebbe e, secondo il suo stile, scuotendo il capo, abbandonerebbe quest’aula. Di lui voglio invece tracciare alcuni tratti che a mio modo di vedere lo caratterizzano agli occhi di chi l’ha conosciuto in Burundi come qui in Italia.
Padre Bepi era anzitutto un missionario che amava la sua missione, un Saveriano tutto d’un pezzo, contento della sua missione e del suo essere saveriano. Era entusiasta e si lasciava prendere dalle sfide della missione che non furono da poco in un paese massicciamente battezzato e paradossalmente ancora da convertire alla fede. Fu un pastore, come ce lo descrive il vangelo che abbiamo appena letto (Gv 10, 11-18). Conosceva i suoi, per nome, grazie alla sua memoria straordinaria, e parlava la loro lingua in modo perfetto, tanto da suscitare la meraviglia di chi l’ascoltava. Come parroco fu incaricato di diverse comunità. La prima che gli fu affidata fu Rumonge, una parrocchia difficile in un ambiente poco evangelizzato. Divenne parroco molto presto, dopo due anni dall’arrivo, a causa della partenza forzata del suo predecessore e maestro, il p. Verstevens (1965). La caratteristica della sua pastorale a Rumonge, come altrove, fu la formazione della gente, soprattutto dei catechisti, dei capi-comunità, anticipando le linee conciliari appena appena elaborate, cosciente che la presenza dei missionari non poteva essere eterna. Fu ovunque un prete zelante, che stava lungamente in confessionale, preoccupato di far nascere una religione di vita, coerente, acculturata alla mentalità del popolo burundese. Mentre era parroco di Murago, ebbe ad affrontare la prima sanguinosa repressione degli Hutu negli anni 1972-74 e soffrì molto vedendo il suo gregge maltrattato e disperso. E fu proprio in quella situazione che Padre Bepi si rivelò il pastore che non fugge, ma che difende il gregge, povero e oppresso, a rischio della propria vita, una caratteristica che gli fu sempre riconosciuta e della quale egli andava fiero, anche se gli causava noie e processi. Era diventato un’immagine del pastore secondo il vangelo, che vive con il gregge, fino ad assumere “l’odore delle pecore”, come ama dire Papa Francesco.
La seconda vocazione che si venne delineando un po' alla volta nella sua vita missionaria fino a diventare quasi una nuova identità, fu quella di animatore sociale e di costruttore delle necessarie infrastrutture logistiche. Il Burundi, essendo un paese in via di sviluppo, aveva bisogno di strade e condotte d’acqua, di plessi scolastici, di dispensari e maternità, di centri pastorali e di chiese. Alla momentanea conclusione dei conflitti, c’era poi sempre da ricostruire le case della gente e le strutture pubbliche distrutte e tutti ricorrevano al Padre Bepi, oltre che per la sua accessibilità e competenza, anche per risparmiare le somme esorbitanti richieste dalle poche imprese locali. Fu così che Padre Bepi si trasformò in costruttore e, siccome girava con un camion con la scritta “parrocchia di Buyengero”, gli fu appioppato il soprannome di Buyengero che gli è rimasto fino ad oggi. Così l’ex-rettore del seminario maggiore mi ha mandato “le condoglianze per la morte di p. Buyengero” e i ragazzini frequentavano la scuola “da Buyengero” e la gente, incontrandolo, lo salutava affettuosamente “Buyengero”. Egli non lavorava solo per i Saveriani e le opere loro affidate. Tutto il Burundi – senza esagerare – era diventato per lui un unico cantiere: preti, religiosi e religiose, locali e stranieri ricorrevano a lui. Così alla fine egli passava giornate intere a supervisionare quattro o cinque cantieri sparsi sul territorio nazionale. Nessuno sa come riuscisse a farlo. Per tutto questo nel 2011 il Governo inserì il suo nome nella lista delle “persone che hanno promosso il progresso del paese” e gli conferì la cittadinanza onoraria burundese.
Una terza caratteristica di Padre Bepi che vorrei illustrare, quella che forse appariva meno, ma che era la radice delle altre due, ed era la sua grande umanità alimentata da una pietà essenziale e non convenzionale. Brusco esternamente, nascondeva un cuore molto tenero e dolce che si commuoveva davanti all’orfano rimasto solo, alla vedova condannata alla mendicità, al diversamente abile costretto alla solitudine, ma che si accendeva molto vivacemente davanti al prepotente che umiliava il povero reo di appartenere all’altra razza. Il suo buon cuore era conosciuto e molti ne hanno anche approfittato, ma lui non si è mai tirato indietro. Sempre pronto a dir di sì era incapace di rifiutare un servizio a chi glielo chiedeva, soprattutto se povero o di poca importanza. Bepi era un amico attento, lui che all’esterno sembrava fatto con l’accetta, aveva delicatezze che gli amici suoi conoscono bene. Coltivava delle amicizie profonde e dichiarava senza vergogna di aver bisogno degli amici e delle amiche senza per questo togliere nulla a noi suoi confratelli. E questo era il frutto di una vita di preghiera semplice ed essenziale cui era fedele anche in mezzo a tutte le molteplici attività.
In questi ultimi anni Padre Bepi ha vissuto la parola della prima lettura di questa liturgia. Dal 2013 fu ricoverato tre volte e mentre il suo corpo si andava disfacendo, dentro di lui stava emergendo la sua vera persona, pronta per le dimore eterne. Per lui questi ultimi anni sono stati un periodo di prova che lo ha fatto molto soffrire, l’abbiamo visto letteralmente piangere. Indebolito nel corpo, era tormentato da dubbi, paure e incubi che gli hanno amareggiato profondamente l’esistenza. La nostalgia poi del Burundi e il richiamo dei progetti incompiuti, lo facevano vivere solo nella speranza di rientrare in missione. E quando finalmente dovette arrendersi alla realtà, fu per lui la croce suprema. Chi vi parla ha avuto occasione di seguirlo da vicino in quest’ultima stagione della sua esistenza. Ebbene, mi sono fatto l’idea che Dio l’abbia preparato al passo finale “provandolo come l’oro nel fuoco”. Ma quanta sofferenza! Eppure l’ultima parola che mi ha detto venerdì scorso al telefono è stata : “Grazie, grazie, grazie”. A me è parso il sigillo della sua vita.
Ora siamo noi a dirti “grazie”, Bepi, per la testimonianza che ci hai dato e per il luminoso esempio di vita missionaria e di perseveranza sotto la croce. Siamo sicuri che sulla porta del cielo hai incontrato i tuoi genitori e familiari e quei confratelli e consorelle con cui hai lavorato e con i quali hai condiviso le gioie e le soddisfazioni oltre che le croci della missione, ultime nel tempo le tre Sorelle saveriane della missione di Kamenge, dove tu vivevi, trucidate lo scorso settembre, che ti amavano e curavano come un fratello e la cui morte ti aveva profondamente impressionato: “Esse sono arrivate ….” mi avevi detto. Ora sei arrivato anche tu, Bepi. Prega per noi.
Padre Gabriele Ferrari