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“La prima sera quando mi sono recata in ufficio per prendere confidenza con quello che sarebbe diventato il mio posto di lavoro, verso le 21 e 30 ho sentito all’improvviso degli scoppiettii strani. Sembravano fuochi d’artificio. Ho cercato lo sguardo di padre Claudio che, prontamente, con quell’ironia che successivamente avrei fatto mia, mi ha detto: - Ti stanno dando il benvenuto! - Ci siamo alzati, da fuori li ho riconosciuti: erano spari di kalashnikov, di mitragliette e fucili. Ogni tanto qualche granata.La notte comincia ricordando alla gente più povera, con il coprifuoco, che la guerra non è ancora finita. Improvvisamente, con il calar del sole, le strade si svuotano e lasciano spazio solo alle persone armate e ai cani randagi. Prolungati e puntuali, quasi tutti i giorni, gli spari dei kalashnikov e delle granate che i militari e ribelli fanno tuonare a pochi chilometri da noi. I racconti sulla guerra che, giovani e adulti, spesso, condividono con me in francese, swahili o kirundi, passeggiando per i rioni dei Quartieri Nord, sembrano descrivere un’altra città da quella che io vedo durante il giorno. Ascoltandoli, mi viene spesso in mente Roma: quando la visiti, le guide turistiche ti spiegano che la città moderna si erge su quella antica, perforata a tratti dai tunnel delle metropolitane. Nei Quartieri Nord succede la medesima cosa: si cammina su una città fantasma fatta di fosse comuni, di orrori commessi con i machete, di uccisioni di massa, di genitori e giovani deceduti violentemente, delle macerie dei rioni. Di giorno, invece, la realtà appare piena di vita: variopinta, fatta di colori, chiacchiere, sorrisi, strette di mano, favori, ospitalità, visite, feste, musica e danze, fatta insomma di calore umano.

Il giorno comincia presto nei Quartieri Nord: verso le 5 del mattino le strade brulicano già di donne che si recano nei lontani campi, di bambini che si preparano per la scuola, di sorelle che si occupano dei fratellini piccoli, di biciclette stracariche che vanno al mercato, di uomini che si spostano per andare a intessere quel tessuto sociale fatto di relazioni e scambi che permette la sopravvivenza delle famiglie. Gente che parla, che si saluta, che grida, che si aiuta: tutto il giorno, tutti i giorni. Giornate trascorse con i 30.000 giovani iscritti del Centre Jeunes Kamenge e con tutte le persone dei quartieri coinvolte nei progetti a parlare di pace, riconciliazione, rispetto, tolleranza, coabitazione pacifica, di collaborazione e solidarietà. Fino alle 18, quando cala il sole ed i giovani devono rientrate nelle loro case. Fino alle 20, quando il buio annuncia un altro buio, e lascia lo spazio alle gelosie, alla brama di potere, alla sete di vendetta, al dolore che si trasforma in violenza, alla fame che diventa aggressività, alla povertà che si tramuta in istinto di sopravvivenza.

Ecco che cosa è il piccolo Burundi, il Paese del contrasto tra povertà e ricchezza, tra giorno e notte, ma anche il Paese dove la semplicità della gente ti rapisce e ti spinge solo ad amarlo. Vivere lì per sei mesi significa non solo interagire con i giovani, bensì creare delle profonde relazioni basate su un sincero interesse e una grande voglia di scambio.
Imparando ad ascoltare ho dato ai giovani burundesi la possibilità di incrociare storie di vita, di pensieri e di emozioni, di sogni e di progetti, di speranze e di delusioni, di confrontarle e di mescolarle con le mie. A mia volta ho sviluppato, da un lato, la capacità di calarmi nel loro punto di vista per coglierne meglio il pensiero e i sentimenti, la cultura e la storia; dall’altro, ho ampliato un’attenta capacità di sentire me stessa, la mia empatia e le reazioni determinate da questi nuovi rapporti. Solo così è stato possibile far scattare quella molla che risveglia l’interesse ad analizzare, contribuire e collaborare alla soluzione dei problemi.”